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Senza due diligence

La cosa bella delle storie è che si possono raccontare, perché non hanno freni, àncore, regole: le storie hanno un finale, una morale ed alcune (non tutte) un filo conduttore.

Le storie che racconto qui son tutte senza nomi, e se ci sono è perché me li sono inventati, però son piene di fatti. Racconto storie gravide di geni stroboscopici fatti dello sguardo freddo, ipercritico e curioso del consulente e del gesticolare rapido, appassionato e diffidente dell’imprenditore di turno.

Racconto storie, sì, ed ogni tanto mi chiedo se siano tutte uguali. Le mie storie? Tutte uguali?

Le poche delle tante o le tante delle poche che ho visto, di recente, son quasi tutte uguali: son quasi tutte storie senza due diligence. E la mia capacità di usare il ‘quasi’ in senso puramente matematico è pari solo al mio amore per la punteggiatura.

Piccole redditizie imprese italiane: acquisite. Al secolo si dovrebbe dire comprate, ma acquisite suona più freddo, professionale e meno pericoloso, non trovate?

Da un pesce più grosso, da un pesce diverso, da un pesce straniero. Forse neanche da un pesce.

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Disorganigrammi

Guardavo, oggi, come una slide può rappresentare una perfetta disorganizzazione.

Ci si può mettere una storia secolare, una azienda redditizia, un settore merceologico a margine alto e certo: la disorganizzazione è figlia di se stessa e partorisce solo gemelli monozigoti.

L’organizzazione è un gene recessivo pilotabile, finché in azienda si possono scegliere gli alleli da combinare.

Guardavo una slide che rappresenta la perfetta PMI italiana: 30 persone a dir tanto, una lunga storia di abitudini incrostate su se stesse, competenze da consolidare, lacune da colmare, team di middle managers da costruire. Guardavo quella slide con gli occhi della Norma, la mia amata UNI EN ISO 9001:2008, in attesa della prossima revisione.

Ci vedevo dentro un disordine entropico da sistemare per generare un flusso canalizzato di energia, informazioni, decisioni guidate da un sistema difficilmente fallibile. Ce lo dice lo standard: scegliete le posizioni in funzione dei risultati, delegate responsabilità operative perché si prendano decisioni efficaci, stabilite i risultati attesi, misurate quelli effettivi.

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BCMP: giorno quattro. Siamo a Defcon 1

Lunedì mattina, ore cinque e trenta. Parte la prima mail cauterizzante, quella per il gotha aziendale:

Signori buongiorno, purtroppo è andata nel peggiore dei modi: il ripristino di Windows ha cancellato l’ERP, ma FORSE non tutti i dati che non sono sul backup. Fermo l’azienda. Aspetto le risposte alla mia mail in calce.”

I tecnici han fatto il miracolo. Dopo quattro giorni di fermo il server in Germania, quello remoto, subaffittato e non manutenuto, è tornato fortunosamente ad accendersi.

E la consulente fissata aveva rotto le palle a tutti con il suo piano di continuità aziendale…

Ma che? Ma cosa? Un server è una macchina: funziona sempre.

Peccato che non sia vero: il server si è avviato ma l’ERP non funziona.

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BCMP: giorno tre, ma è ancora domenica

Domenica mattina, ore sette. Tutti dormono. O quasi.

Qualcuno suda camicie a capire come fare a salvare il salvabile. Di solito, quello lì, è il responsabile IT. Ma se ci fosse un responsabile, avrebbe anche una procedura di disaster recovery.

Qui invece non c’è proprio niente e son due giorni che il sistema informativo aziendale è fermo, parcheggiato immobile dentro un server remoto, lassù in Germania, affittato tempo fa dietro ad una lunga catena di subappalti di servizi difficile da raccontare.

Altro che scatole cinesi: questa è una catena di Sant’Antonio.

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BCMP: non è l’acronimo di una parolaccia alla Jannacci ed è solo la prima puntata

Questa estate un cliente che lavora nella tecnologia mi ha chiesto del supporto per redigere quello che in gergo si chiama un Business Continuity Management Plan, da fare perché è obbligato da un cliente.

Ci credono poco, come tutti.

In fondo, a cosa serve la valutazione del rischio e l’adozione di misure preventive per la sicurezza? Ma soprattutto, dei dati?

A niente: le norme internazionali le han scritte perché non sapevano cosa di meglio fare. Non lo sapevate?

La solita noiosa applicazione di qualcosa con cui il Garante per la Protezione dei Dati rompe le scatole alle aziende: niente di più, secondo l’imprenditore.

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La metamorfosi kafkiana

Sono sempre Annarella, ho sempre 45 anni, son passati tre mesi e qui è successo un gran casino.

I revisori a un certo punto sono scomparsi dall’orizzonte, in Direzione eran tutti tesi. Ci sono state settimane dove il silenzio suonava più forte delle urla del capo della produzione.

Poi un giorno l’amministratore delegato, figlio maggiore dell’Ingegnere, il Giovanni, è entrato nel mio ufficio per salutarmi. Non l’aveva mai fatto. Figuriamoci se il principe mette piede nella mia stanza. Mi ha stretto la mano, mi ha detto felice: ‘Ce l’abbiamo fatta, finalmente ce ne andiamo.’ Ha sorriso, è uscito e mi ha lasciato lì come una pera cotta.

E adesso?

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Le origini del cambiamento

Mi chiamo Annarella, ho quarantacinque anni, lavoro qui da più di venti, a due passi da casa. Ogni tanto mi sembra che l’azienda sia diventata la famiglia: son stata assunta dall’Ingegnere quando ero giovanissima e, come lui stesso diceva, non sapevo neanche allacciarmi le scarpe da sola. Mi ha voluta qui perché ero figlia di amici e avevo finito di studiare e c’era un posto vacante in amministrazione. Faccio le fatture, tengo la contabilità, vedo i verbali del CdA passare dalla scrivania del Direttore Amministrativo, che ogni tanto mi chiede di dare un’occhiata o di stampare su un foglio vidimato.

Lavoro qui da una vita e non ci capisco più niente. L’Ingegnere è morto sei anni fa e ci ha lasciati qui da soli. I suoi figli non hanno voglia di occuparsi dell’azienda, si dice da tempo che vogliano vendere. Già, così ci smembreranno in tanti pezzi. E noi, intanto?

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Le 4C

Un Consorzio, venti soci, una decina di milioni di euro di fatturato nel mondo dei servizi, circa 200 persone che lavorano su tutto il territorio italiano.

Nato un decennio fa da una buona idea che è diventata un esperimento professionale, il Consorzio è cresciuto molto velocemente e, come in ogni azienda italiana che si rispetti, ha lasciato fare al business senza riflettere sul fatto che la crescita va sostenuta con la costruzione delle competenze interne. Com’era? La potenza è nulla senza controllo.

E il controllo è un concetto che sfugge in massima parte in queste situazioni.

Niente dipendenti consortili, niente regolamento interno, un sultanato indiscusso, conflitto di interessi tra la presidenza del Consorzio e quella di alcune società consorziate, che ovviamente costituiscono una sorta di holding di controllo. Peccato che anche la holding sia frazionata in diverse ragioni sociali. Peccato anche che al suo interno non ci siano le competenze necessarie per guidare e gestire una macchina che deve muovere risorse, gestire stock, promuovere la crescita commerciale, gestire le relazioni e le relative pratiche amministrative con decine di grossi ed esigenti clienti finali.

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