Aprile, d’intorno. Piove. Piove da mesi. Quasi come se la stagione riflettesse il clima aziendale, l’aria che tira in questi giorni. Almeno, questo è il pensiero di Pietro, direttore tecnico, mentre guarda perplesso fuori dalla finestra.
Ma direttore tecnico di che? La nomina è la sua, perché si è laureato in ingegneria meccanica e per fare il direttore tecnico di un’azienda produttrice di macchine utensili ci vuole il titolo. Ma il problema è sempre lo stesso: il vero creatore è il padre. Grande, ingombrante, talora ottuso padre, che progetta su carta e poi passa in officina le sue creature, senza minimamente curarsi di tutte le difficili regole del sistema. Che se non le rispettano si va tutti in coro in galera e con le multe da pagare ci si prosciugano case e patrimoni di famiglia.
Mentre riflette sul fatto che le cose son cambiate, almeno nell’ultimo decennio, e che lui non riesce ad inculcare il fatto nella testa dura del padre, scorge un’ombra riflessa nel vetro. Elisa, sua sorella, entra come una furia in ufficio, sbraitando, e lo travolge di parole. Ne capisce circa un decimo: sua sorella ha la particolare capacità, quando è nervosa, di inghiottire una sillaba ogni due rendendosi indecifrabile. Sta blaterando qualcosa sullo straordinario degli operai.
‘Stai calma, Elisa, non ho capito niente’.
Elisa sospira: almeno suo fratello la capirà?
Elisa ha poco meno di quarant’anni, una brillante laurea in economia aziendale, fa il direttore amministrativo. Cioè, poveretta: ci prova. Peccato che qualcuno disfaccia costantemente il suo duro lavoro. Oggi è esasperata dal fatto che, nonostante siano state emesse procedure e linee guida per l’autorizzazione e la gestione del lavoro straordinario nei reparti produttivi, il capo officina continua a fare manovre strane tipo fermare gli operai più a lungo senza poi segnalare le corrette ore lavorate, generando malcontento e reclami sulle buste paga.
‘Non ne posso più, Pietro, di questo sultanato. Non ne posso più. Papà continua a far casino senza curarsi delle conseguenze.’
Si guardano sconsolati, i due fratelli. Pare che non ci sia niente da fare.
Eredi di un piccolo gioiello della manifattura italiana, inventato e cresciuto da un geniale padre inventore dopo il boom degli anni sessassanta, passan dodici ore al giorno in azienda a cercare di far funzionare in maniera oliata e ben organizzata questa meravigliosa macchina che si chiama azienda. Solo che c’è lui che, ogni tanto, passa e combina qualche casino.
Non molla il colpo, il grande padre. Li ha voluti in azienda per portare avanti il suo lavoro e poi, clamorosamente, devasta il loro.
Pensa di essere ancora nel ventennio d’oro, quando non c’erano regole e la creatività si sprigionava con disegni scarabocchiati su carta, lavoratori con i superminimi e gli straordinari fuori busta, macchine progettate ad hoc per i singoli clienti senza grosse sicurezze, mani veloci, cervelli fini. Non ha capito che bisogna usare autocad e standardizzare la progettazione, che le macchine vanno certificate prima di andare sul mercato, che l’analisi dei requisiti del cliente e di quelli normativi cogenti è fondamentale per vendere, oggi, che il lavoro nero è illegale, che non si può lasciare uno in turno da solo per dodici ore. Non l’ha capito, ma dice sempre di sì, convintissimo. Persuasivo. Il sultano.
Li guarda e dice: ‘figli miei, siete i miei gioielli, portate avanti il mio lavoro’. Poi però scende in officina e dà istruzioni dirette agli operai, scavalcando il povero capo officina che suda camicie tutti i giorni aspettando da chi arriverà il prossimo caziatone, mette le mani sulle fatture, spende i soldi con la carta di credito aziendale per far la spesa al supermercato.
Che fare?
Niente, non è bastato un organigramma, non son bastati gli ordini di servizio, non son bastati i consigli del vecchio commercialista di una vita. Ditelo voi ad un operaio di disobbedire al grande capo per rispettare una stupida procedura operativa. Le procedure son robe da colletti bianchi. Autocad è una forma di onanismo da ingegneri, e i soldi, anche se arrivano in contanti, chissenefrega. L’antiriciclaggio è una sega mentale dei parlamentari che non sanno cosa fare per giustificare lo stipendio astronomico che prendono e le tasse sono una noia e basta. Figuriamoci le dichiarazioni dei redditi.
Si guardano, Elisa e Piero, e si chiedono cosa faranno. Interdirlo non si può, anche perché è un genio, un inventore, un grande motivatore, un leader. Insomma, è un sultano. Convincerlo? Nemmeno. Ha la testa dura come il granito. Arrendersi? Significherebbe buttar via decenni di fatica e decine di posti di lavoro, oltre che un grande futuro sul mercato.
Il mercato c’è, il lavoro anche. Ci sono incentivi per l’esportazione, le fiere, qualcuno da mandare a casa perché non è all’altezza delle sfide del futuro. Insomma, da fare ce ne sarebbe, ma come fare? Che fare?
Aprile, fa freddino. Fuori piove, dentro non va molto meglio. I dipendenti non san più come fare a rispettare le regole e l’imposizione delle violazioni e sono tutti abbastanza arrabbiati, e i figli possono fare tutti i corsi del mondo sul passaggio generazionale, ma forse chi ci dovrebbe andare è il sultano, non loro.
Come trasformare un sultanato in un sano governo illuminato senza distruggere la storia?
Come proteggere il patrimonio?
Come costruire un solido futuro, su un solido passato, passando da un presente che prospetta solo grossi guai?
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