Son tanti quelli che dicono che uno degli skill che si testa ad un colloquio è la capacità di fare lavoro di gruppo.
Fosse facile farlo, poi davvero, di lavorare in gruppo.
Il gruppo è orizzontale, il gruppo è verticale. Il gruppo è entropico, il gruppo è chiuso. Il gruppo è misto, variegato, denso ed intenso di umanità e competenze, di storie, esperienze, schemi mentali incrostati, creatività improvvisa.
Il gruppo, da sé, non funziona. E’ la squadra che funziona. Perchè può essere, se vuole, un gruppo organizzato: il contenitore ampio e la mappa dinamica delle più variegate energie e contributi che ciascuno ha da dare.
Suona molto meglio, in inglese: si chiama team.
Ed essere un membro, tirare fuori il meglio, far vincere il team è una delle cose più sfidanti e difficili che si possano fare sul lavoro.
Figuriamoci se parliamo di un team di consulenti, visto che ci pagano per pensare e ciascuno, fisiologicamente ed ontologicamente, pensa da solo.
Scientificamente progettata per anni per farlo, dall’educazione all’istruzione, passando per la formazione sul campo, dicono che sono nata per gestirlo, un team. Per esserne assieme un membro, la guida lungimirante, il governatore, la pista di adrenalina, l’umile servitore. Questo mi han detto, in diciassette anni di esercizio matto e disperatissimo, tutti quelli con cui ho lavorato. A questo credo, per la maggior parte del tempo. Questo, in qualche modo, non ho mai smesso di fare: toglietemi la terra sotto ai piedi, le regole, il contesto, l’istituzione: non importa. Dove vado, vado: io costruisco un dream team.
Il Dream Team, però, a differenza dei gruppi, delle squadrette amatoriali, delle ammassate congerie di competenze aziendali costrette a convivere nello stesso spazio, ha delle regole. A differenza del Fight Club e di Ground Zero, come la squadra del NCIS, il Dream Team ha le sue tavole della legge. La cosa bella è che ciascuno può contribuirne alla Costituzione.
La prima regola del Dream Team è che noi siamo un team.
Giù uno, giù tutti. Come i pompieri. La squadra è onesta, salda, e deve dire sempre tutto quello che pensa, altrimenti non funziona. Teniamoci per mano, perché nessuno cada. Guardiamoci negli occhi, perché il successo è di tutti. Anche se è solo uno di noi è andato in meta.
Seconda regola del Dream Team: schiacciare bene palle alzate male.
Vorrei essere Julio Velasco, purtroppo sono solo io e forse non ho l’illuminata vista di tanta argentina capacità, ma questo è davvero fondamentale. Pare che siamo consulenti, pare che ci si aspetti da noi che risolviamo problemi, altrimenti che ci stiamo fare? Le alzate arrivano da ogni lato, talora come proiettili. Non ce ne frega niente di cosa è successo prima e di quale angolazione abbia l’alzata, ognuno di noi ha un solo preciso compito: fare punto. Trasformare un problema in una opportunità. Piazzare la palla esattamente lì, dove si toccano le righe bianche, e andare a segno.
Terza regola del Dream Team: a ciascuno secondo le sue competenze, da ciascuno secondo le sue possibilità.
Abbiamo attitudini e difetti. Abbiamo capacità e limiti. Dobbiamo fare assieme pensiero vincolo e pensiero opportunità. Ciascuno prende il ruolo che più gli si addice, però poi lo porta avanti con determinazione e forza fino alla fine. Oppure alza la bandierina dicendo: Houston, we have a problem. Se non vale che ciascuno dà il massimo che ha e ha diritto di pretendere di essere aiutato, la squadra non esiste.
Quarta regola del Dream Team: la resilienza.
Qualunque cosa ci succeda, ciascuno di noi riprende la sua forma esistenziale ed il suo posto nella squadra, anche quando veniamo colpiti da un cataclisma. Possiamo anche scambiarci di posto, se serve, ma il dream team è resiliente. Ciascuno di noi è chiamato ad essere sempre, costantemente, il suo prezioso se stesso. E quindi a tendere la mano a chi non ce la fa più, ad avere il coraggio di dire che non concorda, ad esprimere con forza la propria opinione, a tornare al suo posto quando bisogna, a diventare in un nanosecondo il leader quando serve.
Quinta regola del Dream Team: divieto della precomprensione.
Passiamo le giornate a pensare, poi scrivere, poi disegnare. Discutere, condividere, insegnare, convincere. Nessuno di noi può permettersi di sapere già cosa sta per succederci. L’angolazione con cui guardiamo il mondo deve essere pienamente aperta ed assolutamente priva di qualunque forma di preconcetto. Noi non sappiamo di più degli altri, noi siamo al servizio. E servire, come dice Benigni, è divino. Per farlo come ci si addice ci vogliono poche parole, una elevata predisposizione all’ascolto e la capacità di reinventare il punto di vista tutte le volte che è necessario.
Sesta regola del Dream Team: la tolleranza.
Siamo diversi. Non sempre ci capiamo. L’unica soluzione è la pratica scientifica e continua della tolleranza: impariamo a decodificare, comprendere e supportare lo stato d’animo dell’altro. Sia essa ansia, superficialità, stanchezza, demotivazione, voglia di cambiamento. Abbiamo tolleranza, pertanto, della singolarità irriducibile che ciascuno di noi rappresenta e che porta ricchezza e valore alla squadra, anche nella debolezza.
Settima regola del Dream Team: la disciplina.
Ognuno ha il suo ruolo, ognuno ha il suo compito. Il primo va rispettato, il secondo adempiuto. Anche quando fanno schifo. Qualcosa non va bene? Parliamone. Sto sbagliando? Ditemelo. Ma un gommone su una rapida deve arrivare in fondo. Stare davanti sembra più bello, perché arrivano gli spruzzi d’acqua in faccia e uno ha la sensazione di guidare. Non è vero, però. Perché se non remiamo sempre, tutti, nella stessa direzione, ci incravattiamo ad una roccia e qualcuno annega. Perché se non reagiamo sempre, tutti, nello stesso istante e con lo stesso obiettivo, finiamo assorbiti dalla rapida. Capiamo, allora, che ciascuno ha il suo posto, che ogni posto ha il suo senso, che nessuno è indispensabile ma tutti sono necessari. E se qualcuno ha qualcosa da dire, lo faccia. Nel nostro contesto l’assertività ha forza, la disobbedienza è solo dannosa.
Ottava regola del Dream Team: l’improvvisazione.
Nella maggior parte dei casi non sappiamo né chi ci troveremo di fronte né cosa ci dirà. E anche se abbiamo pianificato l’impossibile, una disruption ci sbatterà in faccia come un treno contromano. Impariamo a reagire insieme: uno di noi improvvisa, gli altri si intonano, come una perfetta jazz band. Non voglio mai più dover dire in Italiano, mentre sto parlando in un’altra lingua: *qualcuno mi dia una mano*. Se cambio direzione, sostenetemi. Io lo faccio sempre, quando uno di voi lo fa. E non mi aspetto niente di meno.
Nona regola del Dream Team: il ciclo di Deming.
Plan, do, check, act. Prima pensare, poi fare. Dobbiamo sempre sapere cosa stiamo facendo, perché lo stiamo facendo, prenderci la temperatura per capire se stiamo sbagliando, avere il coraggio e l’onestà intellettuale di capire che un errore va corretto e la direzione cambiata. Per poi ricominciare, da capo, ogni volta, pronti ad agire e, se serve, a reagire.
Decima regola del Dream Team: la fiducia.
Proviamo a credere che ciascuno di noi sa cosa sta facendo. Ascoltiamoci. Se non ci capiamo, parliamoci. Non deve esserci il minimo dubbio sull’operato dell’altro, dal primo all’ultimo. Le perplessità vanno dipanate. I conflitti risolti. La creatività promossa, l’improvvisazione assecondata.
Dream Team, regola Undici: assertività, proattività, reattività.
Non è niente che somigli a ‘credere, obbedire e combattere’. Io parlo di essere, vivere, infondere. Dare il massimo, sempre, con tutta la forza che sappiamo esprimere. Parlo di proporre, rischiare, dare. Parlo di rispondere, colpo su colpo, a qualunque inattesa curva con una piega elegante e stellare.
Dream Team, regola Dodici: la pazienza.
Detto da me, che son sempre in moto, suona come un ossimoro. Però in effetti è vero. Il Dream Team deve avere la pazienza di prendere al meglio tutti i semafori rossi, star fermo finché bisogna, per poi bruciare il verde appena scatta.
Dream Team, regola Tredici: fare o non fare, non c’è provare.
Non solo sia la forza, con noi, ma anche gli insegnamenti di Yoda, il nano verde con le orecchie a punta che dà le piste a tutti i Maestri del mondo. Bisogna fare una cosa? Si fa. Non la sappiamo fare? Impariamo. Nel nostro gruppo, il ‘ci provo’ non esiste. Perché valgono la regola Uno, la Due, la Sette e la Dieci. Chi si è preso un task lo porta a casa, a qualunque costo. Altrimenti dice che non ce la fa. E non c’è niente, proprio niente, con tutte queste teste assieme, che non possiamo fare.
Dream Team, regola Quattordici: tutti sappiamo com’è morto Tranquillo.
Chiedetelo ad un romano, com’è morto Tranquillo. Per questo, nessuno di noi sarà tranquillo (e probabilmente nemmeno starà sereno). La linea di demarcazione tra la rassicurazione e l’anatema è troppo sottile per essere esperita.
Dream Team, regola Quindici: pensiero opportunità
Figlia della Cinque, questa regola ci abitua a pensare che è tutto possibile. Cercare soluzioni significa scomporre i problemi nei loro elementi essenziali, applicare la sequenza delle cinque domande, non scoraggiarsi mai, tenere la mente aperta, immaginare scenari futuribili, proporli come se fossero già lì.
Dream Team, regola Sedici: pensiero vincolo
Uno di noi, almeno uno, deve fare l’Avvocato del Diavolo. E chi sceglie di farlo (possibilmente a turno), deve assumere il ruolo del popperiano convinto. Falsificare ogni ipotesi con determinazione ed obiettività, distruggendo ogni punto debole della soluzione come se fosse il suo peggior nemico. Chi ha il coraggio di fare pensiero vincolo deve prendersi sulle spalle la responsabilità di essere quello che, se non è riuscito a falsificarla, ha validato il singolo pezzo della soluzione.
0 commenti