Guardavo, oggi, come una slide può rappresentare una perfetta disorganizzazione.
Ci si può mettere una storia secolare, una azienda redditizia, un settore merceologico a margine alto e certo: la disorganizzazione è figlia di se stessa e partorisce solo gemelli monozigoti.
L’organizzazione è un gene recessivo pilotabile, finché in azienda si possono scegliere gli alleli da combinare.
Guardavo una slide che rappresenta la perfetta PMI italiana: 30 persone a dir tanto, una lunga storia di abitudini incrostate su se stesse, competenze da consolidare, lacune da colmare, team di middle managers da costruire. Guardavo quella slide con gli occhi della Norma, la mia amata UNI EN ISO 9001:2008, in attesa della prossima revisione.
Ci vedevo dentro un disordine entropico da sistemare per generare un flusso canalizzato di energia, informazioni, decisioni guidate da un sistema difficilmente fallibile. Ce lo dice lo standard: scegliete le posizioni in funzione dei risultati, delegate responsabilità operative perché si prendano decisioni efficaci, stabilite i risultati attesi, misurate quelli effettivi.
Ruota di Deming: plan, do, check, act. Prima di camminare per ore vicino alla bicicletta: fermatevi, decidete dove andare e poi saliteci sopra, pedalate, e verificate se state andando nel posto giusto.
L’organigramma di una azienda non è uno scarabocchio puramente formale. Piuttosto esso è il figlio primogenito di un chiaro progetto organizzativo che stabilisce dove si vuole andare, come e con chi, espresso in un disegno semplice, sintetico, ordinato.
Guardate l’organigramma di una azienda: vi dirà di che colore sono le sue mutande.
Purtroppo, l’organigramma che guardavo aveva 40 posizioni su 30 risorse, linee gerarchiche tratteggiate e quindi opinabili, troppi riporti diretti, nessuna responsabilità definita. Per questo pagano quelli come me, per cambiare il colore delle mutande di una azienda e metterle in lavatrice prima di riutilizzarle.
Forse.
Perché se non siete lungimiranti: mutande che avete, mutande che vi tenete e che prima o poi qualcuno scoprirà, suo malgrado.
E se vi trovate davanti un paciugo di linee tratteggiate e colorate, chiedetevi cosa c’era nel disegno originale di chi l’ha pensato, perché forse era un po’ confuso. Se uno disegna uno schema confuso, forse sta cercando solo di mistificare il disordine per dargli una veste più pulita, non per questo più utile.
Disegno organigrammi da quando mi han spiegato il senso della Norma, quando ancora la chiamavano ‘Vision 2000′ perché era intesa quasi alla stregua di un movimento futurista.
Non si tratta di saper usare Power Point di Microsoft: si tratta di saper leggere funzioni e disfunzioni di una azienda, di trarne le eventuali, dovute, necessità di cambiamento, di avere il coraggio di cambiare le cose in meglio, valorizzando il fantomatico capitale umano di cui tanti consulenti saccenti parlano e pochi davvero sanno. Ce le metteressero un po’ loro, le mani, nel guano della piccola azienda, per trasformare lo sterco in concime.
Il passo è così semplice che sembra imperseguibile: sapere come, capire perché.
Utilizzare strumenti ormai disfunzionali per trasformarli in risorse attive per il futuro.
Avere il coraggio di cambiare i meccanismi e gli ingranaggi per reggere la sfida del futuro.
Ho clienti che l’han fatto: adesso fatturano il doppio.
Avevo clienti che non l’han fatto: l’uso dell’imperfetto dà esattamente il senso delle cose.
Se rappresentare l’azienda è un gioco elettronico di colori e diagrammi di flusso, riprogettarla, davvero, perché renda, è opera di intelletto, pensiero e problem solving. Cambiare è possibile, talora senza tagliare, sapendo guardare con obiettività e rigore alle disfunzioni, oltre che alle funzioni. Cogliere le attitudini, colmare i vuoti di competenza, costruire una strada pianificata per andare coesi verso l’obiettivo.
Plan. Do. Check. Act.
Schiacciare bene palle alzate male.
Guardare all’azienda per pensare al futuro.
Non ci vuole un genio come Steve Jobs e nemmeno un coach come Julio Velasco, basta un po’ di sana coscienza dell’obiettivo.
E la rimozione di uno schema, tutto italiano e non più rinascimentale, che ci porta a fare solo quello che sappiamo senza innovare alcunché.
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