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Senza due diligence

La cosa bella delle storie è che si possono raccontare, perché non hanno freni, àncore, regole: le storie hanno un finale, una morale ed alcune (non tutte) un filo conduttore.

Le storie che racconto qui son tutte senza nomi, e se ci sono è perché me li sono inventati, però son piene di fatti. Racconto storie gravide di geni stroboscopici fatti dello sguardo freddo, ipercritico e curioso del consulente e del gesticolare rapido, appassionato e diffidente dell’imprenditore di turno.

Racconto storie, sì, ed ogni tanto mi chiedo se siano tutte uguali. Le mie storie? Tutte uguali?

Le poche delle tante o le tante delle poche che ho visto, di recente, son quasi tutte uguali: son quasi tutte storie senza due diligence. E la mia capacità di usare il ‘quasi’ in senso puramente matematico è pari solo al mio amore per la punteggiatura.

Piccole redditizie imprese italiane: acquisite. Al secolo si dovrebbe dire comprate, ma acquisite suona più freddo, professionale e meno pericoloso, non trovate?

Da un pesce più grosso, da un pesce diverso, da un pesce straniero. Forse neanche da un pesce.

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Deliverables

Diceva un mio compagno di università, al secolo Gianluca D. (se mi autorizza, sarà taggato), che il lavoro del consulente è lineare: produce slide a mezzo di slide. Come pensavamo sofisticato, noi del DES della Bocconi…

Pensavo non sapesse di che parlava, poi ho capito che non aveva torto: che ce ne son di due tipi, di consulenti, quelli che sanno e quelli che non sanno.

Quelli che non sanno, in effetti, spesso producono slide a mezzo di slide. Ve lo dico da consulente.

Lo sapete quante volte mi son sentita dire: ‘Chiara, tu sì che capisci il concetto di scadenza… tu sei un consulente, per voi il deliverable è tutto’?

Infinite.

Non siamo neanche più capaci di chiamarlo per nome in Italiano, il risultato del nostro lavoro, per questo io lo scrivo come si deve però poi lo penso così, in Italiota: de-li-ve-ra-bol. Perchè quella roba lì somiglia terribilmente al prodotto semantico di un azzeccagarbugli, non al risultato del mio lavoro.

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Le regole del Dream Team

Son tanti quelli che dicono che uno degli skill che si testa ad un colloquio è la capacità di fare lavoro di gruppo.

Fosse facile farlo, poi davvero, di lavorare in gruppo.

Il gruppo è orizzontale, il gruppo è verticale. Il gruppo è entropico, il gruppo è chiuso. Il gruppo è misto, variegato, denso ed intenso di umanità e competenze, di storie, esperienze, schemi mentali incrostati, creatività improvvisa.

Il gruppo, da sé, non funziona. E’ la squadra che funziona. Perchè può essere, se vuole, un gruppo organizzato: il contenitore ampio e la mappa dinamica delle più variegate energie e contributi che ciascuno ha da dare.

Suona molto meglio, in inglese: si chiama team.

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La competenza, questa sconosciuta

La competenza. Strano mistero ormai, per la PMI.

Parlo di risorse che sanno quello che dicono, che fanno quello che dicono, che dicono quello che sanno e poi lo fanno.

Risorse sì: mezzi di produzione si sarebbero chiamati, in un gergo antico e fin troppo politicamente abusato, oltre che orientato.

Risorse, capitale umano, aggregati complessi di competenze ed expertise, come direbbe un bocconiano alla mia stregua.

Consulenti? Dipendenti? Dirigenti?

Risorse.

Di questo vive l’azienda, nella società dell’informazione. Di questo, o meglio senza, può morire l’azienda, nella stessa osannata ed incompresa società dell’informazione. Perché senza sapere si va a caso. E a caso, nel lungo periodo, non si va da nessuna parte.

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